XIII: Qui è raccontato come Antigono rimproverò Alessandro perché si faceva suonare una cetra per divertirsi

Un giorno per divertirsi Alessandro stava facendo suonare un musicista, e Antigono (un generale di Alessandro Magno) prese la cetra (lo strumento era una cetra), la fece a pezzi, e la buttò nel fango. Poi disse ad Alessandro queste parole:

«Alla tua età e momento della vita si conviene regnare, mica cetrare!».

E perciò si potrebbe dire: “Il corpo è il regno; una cosa vile è la lussuria, che si può quasi paragonare al suonare una cetra”. Dunque si deve vergognarsi chi deve regnare in virtù ma si diverte in lussuria.
Durante un convivio, il re Poro (quello che combatté contro e poi con Alessandro) fece tagliare le corde della cetra di un cetrista e disse queste parole:
«Meglio tagliare che lasciarsi sedurre: perché si perdono le virtù davanti alla dolcezza del suono».

XII: Qui è raccontato l’onore che Aminadab fece al re Davide, il suo naturale signore

Comandando un esercito grandissimo, Aminadab (il generale e maresciallo del re Davide) andò a prendere d’assedio una città dei Filistei.
Sentendo che la città non poteva più resistere e che l’avrebbe presa ben presto, Aminadab mandò per il re Davide, chiedendogli di venire all’accampamento militare con sostanziosi rinforzi perché (diceva) temeva una sconfitta. Il re Davide si mosse subito e andò al campo di Aminadab.

«Mbe’? Perché mi hai fatto venire qua?» egli domandò.
E Aminadab rispose:
«Maestà, perché la città non può più reggere, ed io volevo che Lei potesse avere il prestigio di una così fatta vittoria, anziché l’avesse io».

Attaccò la città e la vinse. E il prestigio e l’onore ne ebbe Davide.

XI: Qui è raccontato come il Dottor Giordano fu ingannato da un suo interno sleale

C’era un medico, di nome Giordano, che aveva un interno. Il figlio di un re si ammalò. Il dottore andò da lui e determinò che si poteva curare. L’interno, per rovinare la reputazione del suo maestro, disse al padre:

«Io dico che morirà senza dubbio».

E poi, in aperta polemica con il suo maestro, fece aprire la bocca al malato e, dimostrando molta conoscenza, con la punta del dito lui posò del veleno sulla sua lingua.

L’uomo morì.

Il maestro se ne andò e perdette la sua reputazione, e l’interno la guadagnò. Poi il maestro giurò di non praticare mai più la medicina se non agli asini, e diventò medico delle bestie e dei vili animali.

X: Qui è raccontato un bel verdetto, che fece Lo Schiavo di Bari* tra un cittadino e un pellegrino

Un cittadino di Bari partì per un pellegrinaggio a Roma, e affidò a un suo amico la somma di trecento Bisanti (cioè la moneta dell’impero bizantino), ma solo a questo patto e condizione:
«Io parto, e andrò sì come a Dio piacerà, e se io non dovessi tornare, darai questi soldi per l’anima mia. E se invece torno entro una certa data x, mi restituirai quel che vorrai».

Questo pellegrino fece il suo pellegrinaggio, ritornò entro la data stabilita, e chiese indietro i suoi Bisanti. L’amico gli rispose:
«Racconta com’era il nostro patto».
Il pellegrino lo ridisse a puntino.
«Esatto» disse l’amico. «Ecco qua: ti voglio restituire dieci Bisanti. E gli altri duecentonovanta me li tengo».
«Come!?» incominciò ad arrabbiarsi il pellegrino, dicendo «Che onestà è questa? Tu me li prendi falsamente!».
E l’amico gli rispose soavemente: «Non ti faccio torto, e s’io te lo faccio, andiamo davanti al giudice».

L’azione legale c’era.

Lo Schiavo di Bari fu il giudice al processo. Il problema fu presentato, lui sentì le parti, e emise il verdetto. Parlando all’uomo che si era ritenuto i Bisanti:
«Restituirai al pellegrino i duecentonovanta Bisanti, e lui ti darà i dieci che gli hai restituito, perché i termini del patto erano questi: “mi restituirai quel che vorrai”. Quindi restituisci i duecentonovanta Bisanti che vuoi e prenditi i dieci che non volevi».

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*Potrebbe trattarsi di Michael Sclavus, catapano e giudico supreme di Bari nel 925.


IX: Qui si stabilisce una nuova questione e sentenza che fu data in Alessandria

Ad Alessandria, la quale è in Romania (e dovrei distinguere perché di Alessandrie ce ne sono dodici, tutte fondate da Alessandro il Grande nel mese di marzo dell’anno in cui morì)… in quella Alessandria dell’Impero Bizantino, dunque, ci sono certe stradine dove tengono bottega gli arabi che vendono roba da mangiare già pronta, e la gente (come da noi si va in ricerca per i vestiti, da bottega in bottega in bottega) vaga alla ricerca della rosticceria dove le vivande sono le più buone e belle.

Un lunedì, mentre un cuoco arabo che si chiamava Fabrac era alla sua griglia, un povero arabo arrivò con un pezzo di pane in mano. Non aveva una lira per comprare niente, ma tenne il pezzo di pane sopra la griglia, intercettando il fumo che ne usciva. E farcito il pane del fumo che veniva dal cibo, gli diede un morso. Poi ripeté il procedimento fino a che se lo fu mangiato tutto.

Questo Fabrac non aveva venduto bene quella mattina. Sentì ingiuria e fastidio. Così prese questo povero saracino e gli disse:
«Pagami per questo! Ché tu hai preso del mio!».
Il povero rispose:
«Io non ho preso del tuo cibo altro che fumo».
«E di ciò che hai preso del mio, mi paga», diceva Fabrac.

E la fecero tanto lunga che la notizia della lite (perché era una questione così nuova e difficile a risolvere e non più mai avvenuta) giunse alle orecchie del Sultano. Il Sultano, di fronte ad una così nuova novità, radunò i saggi e mandò per questi due. Presentò il problema. I saggi arabi cominciarono a sottilizzare. C’era chi sosteneva che il fumo non era la proprietà del cuoco, e addiceva molti argomenti: «Il fumo non si può mangiare per alimentazione, non ha sostanza, e non ha proprietà che sia utile: non lo deve pagare». Altri dicevano: «Il fumo era unito in solido alle vivande, ed era in possesso del cuoco ed era anche generato dalla sua proprietà: lui per professione vende, e chi ne prende è di solito chi paga». C’erano molti ragionamenti e giudizi, e finalmente un consiglio fu dato al Sultano:
«Dato che alcuni fanno venditori per mestiere e altri fanno i compratori, Lei, giusto Signore, ordini che lui sia giustamente pagato per la sua merce, secondo il suo valore. Se per i suoi cibi (che vende insieme con le loro proprietà utili) riceve di solito i soldi utili, adesso che ha venduto fumo (che è la parte sottile e impalpabile che esce dal cibo) faccia suonare per terra una moneta, Signore, e giudichi che il pagamento sia fatto con il suono che esce di quella».

E il Sultano giudicò che si facesse così.

VIII: Come il figlio di un re donò ad un re detronizzato di Siria

Un signore della Grecia, (un re che si chiamava Aulix e che dominava un regno molto grande), aveva un figlio adolescente al quale aveva fatto impartire una completa educazione delle sette arti liberali, cioè dalla grammatica-retorica-dialettica del livello elementare al gruppo aritmetica-musica-geometria-astronomia del grado superiore, e in più gli faceva insegnare la vita morale, ovvero i bei costumi.

Un giorno questo re prese una gran quantità di oro e lo diede a suo figlio dicendo:
«Spendilo come piace a te».
Ma ordinò ai cortigiani e baroni che nessuno gli insegnasse come spenderlo e che tutti tenessero il ragazzo sott’occhio per osservare come si sarebbe comportato.

Un giorno, i cortigiani e baroni che seguivano il giovane da vicino stavano con lui alle finestre del palazzo. Il ragazzo, che se ne stava tutto pensieroso, vide passare per strada un gruppo di persone molto nobili, a giudicare dall’equipaggiamento e dall’aspetto. La strada correva proprio accanto al palazzo. Il giovane ordinò che tutta quella gente fosse portata davanti a lui. Detto fatto: i camminatori comparvero davanti al giovane. Uno, che aveva il cuore più ardito e la faccia più tranquilla, si fece avanti e domandò:
«Cos’è che vuole, signore?».
«Voglio sapere da dove vieni e di che condizione* sei» rispose il giovane.
«Sono italiano» replicò quest’uomo «e sono un commerciante molto ricco, signore. E la ricchezza che ho io, non me l’ha lasciata in eredità nessuno: è tutta olio di gomito mio, cioè—voglio dire, signore—l’ho guadagnata con la mia propria sollecitudine».
Il giovane si rivolse al prossimo uomo, una persona d’aspetto nobile che aveva una faccia timorosa e stava più indietro che l’altro. Non così arditamente disse:
«Cosa mi vuole domandare, signore?» chiese l’uomo.
«Ti domando da dove vieni e di che condizione*» rispose il giovane.
E questo disse:
«Vengo dalla Siria e sono un re: e ho sì saputo fare che i miei sudditi mi hanno cacciato via».
Poi il giovane prese tutti i soldi e li regalò a questo detronizzato.

La notizia di questo corse in bocca in bocca per tutto il palazzo. I baroni e cavalieri e cortigiani tutti si parlavano, e tutta la corte suonava della dispensazione di questi soldi. Al padre furono raccontate tutte queste cose, e come suo figlio aveva dispensato tutto quell’oro, e tutte le sue domande e tutte le risposte, senza trascurare le virgole.

Il re, in presenza di molti baroni, cominciò a parlare al suo figlio e disse:
«Con quale criterio hai dispensato i soldi? Quale idea ti ha fatto agire così? Come ci spieghi il fatto che non hai dato niente a chi, per sua propria virtù, ha guadagnato molto, dimostrandosi capace e saggio, e che tu hai invece regalato tutto a chi ha perso il suo regno per la propria colpa e follia?».
Il giovane saggio rispose:
«Signor padre mio, io non faccio regali a chi non mi insegna niente: e non ho fatto nessun regalo. Quel che ho fatto era una remunerazione, non un dono. Il mercante non mi ha insegnato niente, quindi non gli dovevo niente; ma da quell’altro, uno della mia stessa condizione, figlio di un re che portava corona di re, un uomo che per la sua follia è stato cacciato vai dai suoi sudditi… da lui ho imparato così tanto che i sudditi miei non cacceranno mai me. Ecco perché il dono che gli ho dato è piccolissimo, in confronto a una lezione così ricca».
Ascoltando la sentenza del giovane, suo padre e i suoi baroni lo lodarono di grande sapienza, dicendo che dimostrò grande speranza nella sua giovinezza e che nei anni maturi lui sarebbe uomo di grande valore.

Tante lettere corsero per i paesi a signori e baroni; e ne furono grandi disputazioni tra i saggi.

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*Condizione qui vuol dire “classe sociale o stato di nascita”.


VII: Come l’angelo disse a Salomone che il regno sarà tolto al suo figliuolo

Nelle Scritture si legge che un altro dispiacere a Dio fu commesso da Salomone, il quale ricevette la sentenzia di perdere il suo reame. Un angelo fu mandato da Dio, e gli disse:
«Salomone, per la tua colpa è proscritta la perdita del tuo regno, ma Nostro Signore dice che, considerando la buona condotta di tuo padre, no ti toglierà il trono durante la tua vita, ma—per colpa tua—lo toglierà a tuo figlio».
E così il Signore avrà stabilito un precedente per dimostrare che i meriti del padre ricadono sul figlio e che le colpe del padre vengono punite sul figlio. Nota bene, lettore, che Salomone lavorò sodo sotto il sole, con ingegno e con enorme sapienza. Creò un grandissimo e nobile regno. Dopo averlo creato, pensò bene di assicurarsi contro il caso che l’eredità cadesse in mano ai figli di un altro. Per essere sicuro che questo non avvenne, lui pensò di fare molti eredi, e a questo scopo, prese molte mogli e tante amiche. Ma Dio, che è sommo dispensatore, provvide che, tra tutte quelle mogli e amiche, Salomone non ebbe che solo un figlio unico.
Allora Salomone provvide così a mettere in ordine il regno tanto a puntino e tanto su misura che il figlio (il quale si chiamava Roboamo) regnasse certamente dopo di lui. Per assicurarsi di questo, Salomone gli organizzò la sua vita dalla prima infanzia fino alla vecchiaia, provvedendolo di una scorta pressoché illimitata di massime sapienziali. Ma non solo: gli mise da parte un tesoro spropositato, ben custodito sottochiave in un posto sicuro. E fece anche di più, stabilì ottimi rapporti con tutti i regnanti che confinavano con lui, e fece la pace. E per quanto riguarda gli interni, Salomone fece felice tutti i suoi baroni e li sistemò bene sotto di lui tutti d’amore e d’accordo. E poi fece altre cose ancora! Insegnò al figlio come prevedere il futuro con l’astrologia e come dominare i demoni (probabilmente con la magia nera). E tutto questo fece perché Roboamo regnasse dopo di lui.
Quando Salomone fu morto, Roboamo radunò un consiglio di vecchi saggi e pose la questione costituzionale, chiedendo come lui avrebbe dovuto governare secondo loro.
I vecchi glielo dissero:
«Convoca l’assemblea del popolo e con dolci parole dice che tu li ami come te stesso e che loro sono il tuo scettro e che se tuo padre era un po’ aspro e autoritario con loro, tu sarai umile e benevole, e che se lui li faceva faticare tu darai a tutti le ferie pagate, e che se lui li richiedeva troppe tasse per la costruzione del Tempio tu le diminuirai».
Questi consigli gli diedero i saggi anziani del regno.
Roboamo uscì e convocò un consiglio di giovani per fare a loro la stessa domanda, ma i giovani gli posero subito un’altra domanda:
«Quelli che tu hai sentito prima, che consiglio ti hanno dato?».
Roboamo glielo raccontò parola per parola, e poi i giovani dissero:
«Quei parkinsoniani ti ingannano, perché non si mantengono i regni con parole me con prodezza e con franchezza. Se ti dimostrerai troppo gentile con il popolo, la gente penserà che tu abbia paura, e addio: invece ti sommetteranno perché non ti rispetteranno come signore e non ti ubbidiranno. Dacci retta: noi siamo tutti tuoi servi, e un padrone ai suoi servi può fare quello che gli pare. Ai sudditi devi gridare forte in faccia che sono tutti servi tuoi e che se non ti ubbidiranno tu li punirai secondo la tua aspra legge senza pietà. E se Salomone li ha caricati di tasse per il Tempio, tu gliene darai se e quando ti viene la voglia. Così il popolo non ti prenderà per un bambino; tutti ti temeranno, e così manterrai il regno e la corona».
Il scemo Roboamo si attenne al parere dei giovani: convocò un’adunata del popolo e disse parole feroci.
Il popolo si adirò e i baroni si turbarono. Cominciarono a tenere riunioni segrete e fecero congiure. Si organizzarono, e in solo trentaquattro giorni dalla morte di Salomone, per il folle consiglio dei giovani, Roboamo aveva persa dieci sulle dodici parti del suo reame.

VI: Come a Re Davide venne in mente di sapere quanti erano i suoi sudditi

Davide, essendo re per la pura bontà di Dio (che l’aveva preso pastore e ne aveva fatto signore), un giorno si fece venire in mente di voler sapere quanti erano in totale i suoi sudditi. Questo fu un atto di superbia che dispiacque molto a Dio, così gli spedì subito un angelo a dirgli:
«Davide, tu hai peccato. Ecco il messaggio del Signore Dio Tuo. Dice: “Preferisci tre anni di malattia, o tre mesi nelle mani dei suoi nemici, cioè tuoi, o vorresti metterti nelle mani del Signore, e ci pensa Lui a punirti?”».
Rispose Davide:
«Mi metto nelle mani del mio Signore: gli lascio fare di me ciò che vuole».
E allora cosa gli fece Dio? Lo punisce con un contrappasso adatto: gli tolse la maggior parte del suo popolo, facendoli morire. Sicché Davide commise un atto di superbia nel vantarsi del gran numero di sudditi, Lui glielo diminuiva di un bel po’.
Un giorno Davide , che stava facendo un giro a cavallo, vide l’angelo sterminatore con la spada nuda che andava ammazzando la gente. Proprio mentre l’angelo stava per colpire un uomo, Davide smontò e gridò:
«Abbi pietà, per l’amore di Dio! Non uccidere gli innocenti! Uccidi me, perché la colpa è tutta mia.».
Per queste parole sue buone, Dio perdonò il popolo, e la strage finì.

V: Come un re diede al suo giovane figlio l’incarico di provvedere una risposta agli ambasciatori della Grecia

C’era un re d’Egitto che ebbe un figlio primogenito destinato a succedergli al trono. Fin dalla più tenera età cominciò a farlo educare così bene da una torma di vecchioni sapienti che quando compiè quindici anni, non aveva visto neanche l’ombra di un’infanzia vera.

Un giorno il padre gli diede l’incarico di rispondere in sua vece a certi ambasciatori della Grecia. Il tempo era cattivo. Pioveva. E il giovane, alzandosi su una ringhiera per rispondere agli ambasciatori, volse gli occhi per una finestra del palazzo e vide altri giovani che giocavano: incanalavano l’acqua piovana e costruivano dighe e mulini di paglia. Il giovane piantò subito il discorso, si scapicollò giù per le scale del palazzo, raggiunse gli altri ragazzi che raccoglievano la pioggia, e cominciò anche lui a fare il giochino dei mulini. Un esercito di consiglieri e funzionari gli corse dietro, e tutti insieme lo riportarono al palazzo. La finestra fu chiusa, e il giovane finì la risposta che doveva dare agli ambasciatori.

Dopo l’udienza, quando il pubblico era partito, il padre radunò filosofi e luminari di tutte le scienze, e gli propose il caso del figlio. Qualcuno degli scienziati proponeva per uno squilibrio ormonale, qualcun altro per un cedimento psichico: uno parlava di lesioni cerebrali, e chi ne diceva una e chi un’altra, secondo la scienza in cui erano specialisti. Alla fine un filosofo domandò:
«Com’è stato allevato questo giovane?».
Gli raccontarono che era stato educato tra sapienti e anziani, lontano da ogni bamboleggiamento. Poi disse il saggio:
«E vi meravigliate se la natura reclama ciò che ha perduto? Da giovani bisogna divertirsi: per pensare c’è la vecchiaia».

IV: Come un giullare si lamentò, davanti ad Alessandro, di un cavaliere

Quando Alessandro stava assediando la città di Gaza con un grande esercito, capitò che un nobile cavaliere (prigioniero dei nemici) riuscì a scappare e, trovandosi praticamente senza niente, decise di andare da Alessandro, che era assai più generoso di tutti gli altri comandanti.
Per la strada, questo cavaliere incontrò un giullare, vestito e equipaggiato meglio di uno con quattro quarti di nobiltà. Il giullare gli domandò dove andava di bello.
Il cavaliere rispose: «Vado a chiedere a Alessandro che mi regali qualcosa, in modo di poter tornare a casa mia senza dovermi vergognare».
Poi il giullare gli disse «Ti regalo io quello che vuoi, e tu in cambio mi darai quello che ti regalerà Alessandro».
«Va bene,» rispose il cavaliere «regalami per favore un cavallo da sella, una bestia da carico, dei vestiti, e i soldi sufficienti per tornarmene al mio paese».
Il giullare gli regalò tutto e cavalcarono insieme da Alessandro, il quale aveva appena finito una giornata di durissima battaglia contro la città di Gaza. Alessandro, tornato dalla battaglia, stava nella sua tenda da campo a farsi togliere l’armatura.
Il cavaliere e il giullare si fecero avanti. Il cavaliere fece la sua richiesta ad Alessandro, umilmente e con belle maniere. Ma Alesando non gli disse nulla, né gli fece rispondere da altri. Il cavaliere salutò il giullare e si mise in viaggio per tornarsene al suo paese.

Si era allontanato di poco, quando una delegazione di nobili cittadini di Gaza portò a Alessandro le chiavi della città: si arrendevano senza condizioni, con pieno mandato di ubbidire a lui come il loro re. Alessandro allora si volse verso i suoi consiglieri e domandò:
«Dov’è andato quello che mi chiedeva un regalo?».
Si mandò a cercare dappertutto il cavaliere che aveva chiesto un regalo e, non appena trovato, tornò subito indietro. Una volta arrivato, Alessandro gli disse:
«Nobile cavaliere, ecco le chiavi della città di Gaza. Prendile, te la regalo volentieri».
«Oh, no, signore,» rispose il cavaliere «non regalarmi la città. Ti prego di regalarmi oro, o argento, o vestiti, scegli tu».
Alessandro fece un sorriso e ordinò che gli diedero duemila marchi d’argento—e dai registri questo si poteva leggere che questo fu il regalo più misero che Alessandro fece mai.
Il cavaliere prese i marchi e li diede al giullare. Il giullare corse da Alessandro e non la finiva più di insistere che gli fosse resa giustizia: tanto fece, che ottenne l’arresto del cavaliere! Poi davanti al tribunale presieduto da Alessandro, presentò il suo reclamo in questi termini:
«Maestà, questo qui ho incontrato per strada: gli ho chiesto dove andava e perché, e lui mi ha risposto che andava a farsi dare regalo da Alessandro, e allora io ho fatto un patto con lui. Il regalo gliel’ho fatto io, e lui mi ha promesso che mi avrebbe regalato quello che Alessandro gli avrebbe regalato. Dopo, lui ha rotto questo patto. Mi ha truffato perché ha rifiutato la nobile città di Gaza e ha accettato quei marchi qui, ragion per cui io chiedo alla Vostra Signoria che mi faccia giustizia e che mi dia la differenza di tutto quello che vale la città, meno i marchi».
Poi parlò il cavaliere, che aveva per prima cosa confermato l’esistenza del patto:
«Ragionevole Signore, questo uomo è giullaresco, un uomo di spettacolo, e nel cuore di giullare non può nascere il desiderio di governare una città. Quando ha fatto il patto con me, lui pensava d’oro e di argento: quella era la sua intenzione! E io ho pienamente onorato quelle intenzioni. Quindi, la Signoria Tua ne discuti con i tuoi saggi consiglieri e provvedi a liberarmi, se volete».

Alessandro e i suoi nobili giudici e consiglieri prosciolsero il cavaliere con formula piena e lo elogiarono per la sua grande intelligenza.

III: Di un sapiente greco che un re teneva in carcere

In Grecia c’era una volta un’eccellenza che portava la corona di re. Aveva un regno grande, e si chiamava Filippo. Non si sa bene per quale reato, ma teneva in carcere un intellettuale greco, il quale era così saggio che la sua intelligenza si proiettava oltre le stelle.

Un giorno successe che a questa eccellenza fu mandato in regalo dalla Spagna un nobile cavallo di guerra, robusto, bello, e di gran razza. Per sapere se il cavallo donato era veramente di buona qualità, il re fece cercare qualcuno che si intendesse di ippica: i suoi ministeri gli risposero che nelle sue prigioni aveva già il migliore degli intenditori possibili, uno che si intendeva di tutto. Il re fece portare il cavallo nel maneggio e il greco fuori di prigione, e disse:
«Maestro, mi si dice che sei molto colto: valutami un po’ codesto cavallo».
Il greco dette un’occhiata al cavallo e rispose:
«Signore, per essere bello è bello, ma qualcosina da dire c’è: il cavallo è stato allevato a latte d’asina».

Il re mandò gente in Spagna a indagare su come fosse stato allevato il cavallo e si scoprì che la cavalla era morta e che il puledro orfano era stato tirato su con il latte di un’asina. Sentito questa notizia, il re rimase a bocca aperta e ordinò che il sapiente greco fosse ricompensato con una mezza pagnotta al giorno, a spese della corte.

In seguito, successe che il re stava mettendo in ordine le sue pietre preziose e fece mandare a chiamare un’altra volta questo detenuto greco.
«Maestro», gli disse, «tu sei un uomo di grande cultura e seno certo che ti intendi di qualunque cosa. Se ne capisci anche di pietre preziose, dimmi: quale di queste ti sembra di maggior valore? »
Il greco le guardò e disse:
«A Lei quale piace di più? »
Il re scelse in mezzo alle altre una pietra molto bella e disse:
«A me, maestro, la più bella e pregevole sembra questa».
Il greco la prese in mano, poi strinse il pugno, poi se la accostò all’orecchio, e poi affermò:
«Maestà, c’ha dentro un verme».
Il re mandò a chiamare i tagliatori e la fece spezzare, e che c’era dentro la pietra? Certo, il verme! Il re proclamò davanti a tutti che il greco era un sapiente strepitoso e decretò che gli fosse assegnata un pagnotta intera al giorno, a spese della corte reale.

Non passò molto tempo che al re venne la preoccupazione di non essere un sovrano legittimo. Mandò a pigliare il suo greco, però stavolta se lo fece portare di nascosto e gli disse in segreto:
«Maestro, ormai sono sicurissimo che tu sei un’arca di scienza: ne ho avuto la dimostrazione nelle risposte che mi ha dato. Ora voglio che tu mi dica di chi sono figlio?»
Rispose il greco:
«Maestà, ma che domanda mi fa? Lei, Signore, sa benissimo di essere figlio di Suo padre».
Disse il re:
«Andiamo, andiamo, non rispondermi così tanto per farmi piacere. Non devi aver paura di dirmi la verità. È se non me la dici, ti farò morire di una brutta morte».
Allora a questo il greco rispose subito:
«Maestà, io devo dirLe che Lei è figlio di un fornaio».
«Ah sì?” disse il re. «Questa, bisogna che mamma me la confermi».
Mandò a chiamare sua madre e, a forza di minacce truci, la mise con le spalle al muro. La madre confessò che era vero. Il re allora si chiuse in una stanza con il greco e gli disse:
«Maestro carissimo, la tua sapienza ha superato la prova del nove. Ma come fai a sapere tutte queste cose? Dimmelo, per favore».
«Glielo dirò, maestà», rispose il greco. «È stato un semplice ragionamento abduttivo, basato sulla conoscenza della natura, a farmi capire che il cavallo era stato allevato a latte d’asino: avevo notato che teneva le orecchie abbassate, e questo non è naturale per un cavallo. Del verme che bacava la pietra mi sono reso conto perché le pietre per loro natura sono fredde, e questa era invece calda: una pietra calda è innaturale, a meno che il calore non glielo fornisca un essere vivente».
«E io? come hai capito che sono figlio di un fornaio? »
«Maestà”, rispose il greco, «quando Le ho detto una cosa così stupefacente sul cavallo, Lei mi ha ricompensato con mezza pagnotta al giorno: e quando poi le ho detto della pietra, Lei ha aumentato la donazione ad una pagnotta intera. Ci vuole tanto a capire? È stato allora che mi sono accorto di chi era figlio Lei: se fosse stato figlio di re, Le sarebbe sembrato troppo poco regalarmi una grande città, mentre a Lei è sembrato anche troppo regalarmi del pane: Le è venuto naturale, perché così faceva il Suo padre».

Il re allora riconobbe la proprio piccineria, lo fece scarcerare e gli dette regali degni di un vero aristocratico.

II: Federico e il Prete Giovanni

Il Prete Giovanni, nobilissimo capo di stato indiano, mandò, con la debita pompa magna, una nobile ambasceria al nobile e potente imperatore Federico, quello che tutti consideravano un modello di lingua e di virtù, e che in effetti lo fu, perché amava il linguaggio raffinato e si sforzava sempre di dare risposte ponderate. L’ambasceria aveva un doppio scopo semplice: scoprire a tutti costi se l’imperatore era davvero tanto sapiente (1) nell’uso delle parole e (2) nei fatti.
Il Prete Giovanni consegnò agli ambasciatori tre pietre preziosissime e disse:
«Portatele in regalo all’imperatore e chiedetegli da parte mia che vi dica quale è la cosa migliore che c’è al mondo. Registrerete per filo e per segno [cioè, completamente] quello che dice e come risponde, osserverete bene tutti i comportamenti e le abitudini della sua corte e poi me ne farete un resoconto dettagliato, senza omissioni».

Quando gli ambasciatori arrivarono dall’imperatore, lo salutarono con tutte le cerimonie richieste dalla sua imperiale maestà e dal rango del suddetto signore, gli fecero omaggio delle succitate gemme, e lui le prese ma non domandò di quali proprietà fossero dotate: le fece subito mettere via nel tesoro, continuando a ripetere che erano stupende.
Gli ambasciatori fecero la loro domanda, videro la corte, rilevarono gli usi e i costumi, poi, dopo pochi giorni, chiesero congedo.
L’imperatore, che intanto si era preparato la risposta, disse:
«Da parte mia, dite al vostro sovrano che la cosa migliore di questo mondo è la moderazione».

Gli ambasciatori andarono a riferire tutto quello che avevano visto e sentito, raccontando un gran bene della corte dell’imperatore, dove lo sfarzo massimo era l’eleganza, e lodando anche le belle maniere dei suoi cavalieri.
Nel sentire le cose che raccontavano gli ambasciatori, il Prete Giovanni elogiò l’imperatore ma disse che era molto saggio a parole, mica nei fatti: perché non aveva domandato quali miracolosi qualità rendessero tanto preziose le pietre. Quindi gli rimandò gli ambasciatori, con l’offerta di assumerlo alla corte come maggiordomo. E gli fece descrivere quanto era ricco lui, e quante diverse genti teneva in suo dominio, e come governava il suo paese.

Non molto tempo dopo, pensando con le gemme regalate all’imperatore erano più che sprecate in mano ad uno che non ne conosceva il valore, il Prete Giovanni prese un suo gemmologo di fiducia e lo mandò in incognito alla corte dell’imperatore, dicendogli:
«Con qualunque mezzo, tu devi riportarmi quelle pietre. Aguzza l’ingegno e non badare a spese».
Il gioielliere mise in valigia molte pietre di gran bella luce e si mosse. Come artigiano accreditato alla corte imperiale, cominciò ad incastonare le sue pietre: venivano i consiglieri di stato, e venivano i funzionari, e ammiravano i lavori. Lui, che era un vero esperto in lungimiranza, quando vedeva qualcuno che aveva un posto di rilievo alla corte, non vendeva: regalava. E di anelli ne regalò così tanti che la sua fama di grande perito arrivò fino alle orecchie dell’imperatore, che lo chiamò per una expertise delle sue gemme.

Riuscito così a penetrare la corte, fu chiesto di esaminare le gemme davanti all’imperatore sé stesso. Il gioielliere disse che erano belle, ma non speciali, e domandò se aveva di meglio. Allora l’imperatore fece portare proprio le pietre preziosissime che quello non vedeva l’ora di esaminare.
Il gioielliere ne prese una, la soppesò sul palmo della mano e disse tutto allegro:
«Questa pietra, maestà, vale quanto la più ricca città dell’impero».
E poi ne prese un’altra e disse:
«Questa, maestà, vale quanto la più ricca regione dell’impero».
E poi prese la terza e disse:
«Maestà, questa vale più di tutto l’impero», e poi chiuse il pugno attorno alle tre pietre e sparì.

Delle tre, una aveva il potere di rendere invisibili. E così lui ne scese tranquillamente per lo scalone del palazzo, tornò dal Prete Giovanni e gli presentò le tre pietre con grande gioia.

I: Prologo

Nostro signore Gesù Cristo, al tempo in cui parlava umanamente con noi, disse (tra le sue tante parole), che la lingua si muove quando il cuore straripa. Voi, lettori di cuori gentili e nobili (tra i tanti), mettete in armonia la vostra mente e le vostre parole con la volontà di Dio, se parlate di lui: fate bene a venerarlo e temerlo e lodarlo, poiché quel Nostro Soprastante ci ha amati prima ancora di crearci e ben prima che noi provvedessimo ad amarci da soli. Ma se Dio non ha niente in contrario, si può muovere la lingua anche per rallegrare e tener su e dare una mano al corpo; quindi facciamolo, ovviamente con la massima morigeratezza e signorilità possibili.
Dato che è quasi sempre la bella gente a fare da specchio e da modello di riferimento alla gente normale sia per quanto riguarda la maniera di comportarsi che quella di parlare—il linguaggio dei distinti suona meglio perché viene emesso da strumenti più raffinati di quelli in dotazione ai popolari—qui in questo libro raccogliamo a futura memoria un florilegio di bei discorsi, bei gesti, belle risposte, begli atti di coraggio, bei regali e amori belli, esattamente come, in passato, li hanno vissuti i loro molto protagonisti. Per le persone di cuore capace e d’ingegno e d’intelligenza sottile non c’è copyright di queste storie: in futuro potranno farne delle imitazioni, ricamarci sopra, rinarrarli, recitarli in pubblico (se e dove glielo lasceranno fare), a tutto vantaggio degli incolti che amerebbero istruirsi e anche goderci.
E non sentitevi truffati se i fiori che vi proporremo si troveranno, secondo voi, mescolati a un mazzo di parole di qualità più bassa: l’oro brilla di più su un fondo nero e, a volte, per un unico frutto di buon gusto ci piace tutto un orto e per pochi bei fiori tutto un giardino. Non vi rattristi, O lettori, la constatazione che tanti, che hanno vissuto da tanto tempo, da tutta la loro vita hanno saputo tirar fuori soltanto una parola ben detta, o un solo gesto degno di ricordo.

Il Novellino

Il Novellino (in italiano moderno)

Questo libro è un antologia di bei fiori del parlare: cioè, di bei discorsi, bei gesti, belle risposte, begli atti di coraggio e bei regali, esattamente come li hanno fatti molti grandi uomini del passato.